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La poetica di Catullo con il Prof. Franco Terlizzi al Rossini

Spesso siamo soliti pensare che tutto quello che riguarda il passato ormai non ci appartiene più, come un vecchio vestito strappato che possiamo prendere e gettare via. Ma la storia, lo sappiamo, segue un percorso circolare per cui qualunque avvenimento prima o poi è destinato ineluttabilmente a ripetersi seppur cum variatione. Per questo motivo è importante considerare tutto ciò che è precedente a noi come un patrimonio inestimabile da cui attingere per imparare.

Chissà a quanti di voi, ad esempio, sarà capitato di innamorarsi di qualcuno che, sebbene inizialmente sembrasse ricambiare i sentimenti, in seguito si è mostrato recalcitrante nei vostri confronti. Ebbene, una situazione analoga è capitata anche a Gaio Valerio Catullo, un giovane poco più che ventenne nato nell’84 a.C. a Verona da una famiglia benestante. A raccontarci la sua esperienza è il professore universitario Franco Terlizzi, esperto di letteratura latina e greca, che ha scelto di rivisitare leggermente la classica storia d’amore per darne una nuova prospettiva, focalizzata maggiormente sul concetto di maschilismo.

Trasferitosi da Verona nella capitale, Gaio inizia fin da subito a stringere rapporti con alcuni suoi coetanei ugualmente colti e danarosi, dando vita ben presto a un vero e proprio circolo intellettuale alquanto rivoluzionario, tanto che Cicerone li definisce negativamente come “poeti novi”, per designare il fatto che la loro poetica, incentrata prettamente sui temi della convivialità e dell’erotismo, si discostasse da quella solita imperniata su argomenti di carattere politico e religioso.

Ed è proprio in questo periodo che Catullo conosce Clodia, una briosa femme fatal dieci anni più grande di lui rimasta ormai vedova, che in poco tempo infiamma il cuore del poeta. Tra i due nasce subito una relazione, che potremmo dividere in tre fasi: quella iniziale, caratterizzata da un amore totalizzante del poeta nei confronti della donna, che egli ritiene di amare come nessun’altra, la quale, a sua volta, sancisce con lui un foedus amoris, ovvero un patto di amore eterno. È il periodo di “Vivamus mea Lesbia atque amemus”, poesia composta in endecasillabi faleci, e “Ille mi pare deo esse videtur” in strofe saffiche, a ricalcare il celeberrimo frammento di Saffo, la poetessa dell’amore per eccellenza. Ma si sa, i primi tempi sono sempre quelli più idillici, dove la nostra mente, completamente ottenebrata dai fumi dell’eros, non si accorge minimamente dei difetti altrui.

Lesbia infatti (questo è il nome che il poeta attribuisce a Clodia nei suoi epigrammi) è una donna sui generis, la quale, contravvenendo al costume romano, decide di intrattenere diverse relazioni clandestine con svariati uomini senza tuttavia legarsi a nessuno per mezzo di un vincolo matrimoniale. Non appena Catullo viene a conoscenza della questione ecco scoppiare i primi litigi nella coppia, subito appianati dalle molteplici scuse di Clodia, che si giustifica affermando di non poter sospendere relazioni ormai vetuste e giurando di amare soltanto Gaio. Ma il poeta dubita, è sospettoso, come si evince dai componimenti “Iocundum, mea vita, mihi proponis amorem” e “Dicebas quondam solum te nosse Catullum”. I litigi proseguono. Catullo crede di amare profondamente Lesbia e proprio per questo la vorrebbe tutta per sé, ma lei al contrario non vuole saperne di mutare il proprio comportamento per adattarsi a quello che la società maschilista le impone, e così il poeta è costretto ad allontanarsi da lei.

Catullo soffre, sta male, si tormenta con mille domande: “Di chi sarai ora?” “Chi ti morderà le labbra?” “A chi sembrerai bella?” si chiede nell’amaro canto del dissidium.

L’animo di Catullo è agitato, sconvolto, odia e ama Clodia allo stesso tempo. “Quare id faciam fortasse requis. Nescio, sed fieri sentio et excrucior” (Perché faccio ciò mi chiedi forse. Non lo so, ma sento che accade e me ne dolgo) afferma il poeta in uno dei carmina più celebri della letteratura latina. Il malessere psicologico si trasforma ben presto in malessere fisico. Si apre così la terza e ultima fase: Catullo infatti, ormai sfiancato dalla malattia è tormentato, non capisce nulla e non sa più cosa fase. Decide così di allontanarsi definitivamente da Lesbia e compone uno degli ultimi canti, quello del divortium, in cui chiede ai suoi amici Furio e Aurelio di riferire alla donna che “cum suis vivat valeatque moechis” (viva e stia bene con i suoi amanti) per poi morire di tumore nel 54 a.C. alla sola età di 35 anni.

Una storia struggente che commuove gli animi, ma che fa anche tanto riflettere. Secondo Terlizzi infatti dietro la classica storia d’amore vi è molto altro. Catullo, uomo perfettamente ambientato nella Roma del tempo, in cui vige la legge che l’uomo sia superiore alla donna, è abituato a dominare e a prevalere in ogni ambito, compreso quello sessuale. Per tale motivo, egli non comprende come possa una donna, essere inferiore, non sottostare al consueto dominio maschilista e anche solo pensare di essere libera di intessere relazioni con altri uomini. Quello di Catullo, sostiene Terlizzi, non è amore ma mania di possesso! Nulla di diverso, da quello che avviene ai giorni nostri, quando sentiamo parlare di uomini che, pur decantando di amare le proprie donne, finiscono per ucciderle. L’unica differenza è che Catullo, figlio del suo tempo, non può giustamente comprendere il suo comportamento, mentre ad oggi una cosa del genere è assolutamente inconcepibile.

L’incontro, tenutosi al teatro Rossini venerdì 24 marzo, è stato intervallato da alcuni accompagnamenti musicali a cura del professor Rosario Lovecchio, anche lui grande esperto che è riuscito a deliziare le orecchie degli spettatori regalando una sinfonia unica e perfettamente in armonia con il contesto.

In conclusione, l’intervento di Rosanna Renna, presidente del Faro, l’associazione che ha curato l’intera organizzazione, che ha ringraziato pubblicamente gli ospiti e l’assessore Lucio Romano con cui ha collaborato.

Chiara Palazzi

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